La frugalità di Van Gogh

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Gino Zaccaria, La frugalità di van Gogh

La frugalità di Van Gogh

I.

Vincent van Gogh ci ha trasmesso non solo un grande numero di quadri,Per l’esattezza, 871 olii, e poi vari disegni e acquerelli. se si considera la sua fugace esistenza e il breve tempo comunque dedicato alla pittura, ma anche un’impressionante quantità di lettere, che contengono ogni genere di pensieri e di riflessioni sull’arte, e non solo, ma anche vari disegni e progetti di quadri. Uno straordinario zibaldone — redatto fondamentalmente in due lingue, il francese e l’olandese.

In una lettera a Theo dell’ottobre del 18851, Vincent scrive: «Les vrais peintres sont ceux qui ne font pas la couleur locale»: «I veri pittori sono coloro che non riprendono il colore locale». E poco oltre, in forma d’avvertenza: «Ne pas peindre le ton local»: «Mai dipingere il tono locale». Il colore locale indica l’aspetto del pittoresco, la facciata dell’espressivo, il sembiante di ciò che cogliamo come un mero fatto, come un factum brutum, come una scempia “cosa”: l’impatto, insomma, del contingente, che può certo impressionare, attrarre e affascinare così come respingere e disgustare, ma che non può insegnare né trasformare, né, tanto meno, costituire l’inizio di un genuino abitare in un mondo. Il tono locale non appartiene all’arte della pittura.«Colore locale»: questo termine designa in pittura il colore e il tono di ogni oggetto che ci si sforza (o meno) di restituire. Designa anche tutti gli elementi di un luogo che contribuiscono a dargli un’atmosfera particolare. Quest’ultima, infatti, a differenza ad esempio della fotografia, non s’imbatte mai in “fatti”, “cose” oppure “scene”, ossia in dati da restituire in una qualche sagoma più o meno somigliante o più o meno fantasiosa; essa, piuttosto, consiste innanzitutto in un richiamo rivolto all’uomo, nel quale questi è esortato ad accorgersi di una circostanza, celata al quotidiano opinare, che suona: ogni concreto, ogni reale che è — che sta, che ha luogo, che sussiste — deve la propria concretezza, la propria realtà, il proprio essere, non semplicemente a se stesso e alla sua supposta “natura sostanziale”, bensì, sebbene nascostamente, a una dimensione — sorretta dall’esistere stesso dell’uomo ma da nessun uomo come da nessun Dio in nessun senso prodotta o provocata — a cui assegniamo il nome di «verità» e che, esattamente come quell’indole che l’antica lingua greca chiamò ἀλήθεια, non è mai riducibile e riconducibile ad alcun concreto, ad alcun reale. Ora, tale scorgimento — di per sé estraneante, e grazie al quale soltanto, però, un uomo può essere iniziato all’arte — comporta due costitutive conseguenze. Tentiamo di caratterizzarle per brevissimi cenni.

II.

Innanzitutto, se non è attendibile intendere la verità alla stregua di un carattere del singolo reale, del singolo concreto, se dunque non è attendibile ricavare in qualche guisa l’essere-vero dal concreto (magari pretendendo di leggerlo su di esso o nella sua cosiddetta “struttura”), allora dobbiamo riconoscere che ogni concreto ha luogo come un “che” di sussistente nella perenne attesa di ciò che gli si addice, nella sempre ritornante sos¬pensione del suo essere vero, nella perpetua sosta e nella promessa della verità che gli compete. Per esempio, e pensando già ai reali cui si dedica la pittura di van Gogh: l’albero, il cipresso, nell’attesa di essere ciò che è: “solo” un albero di cipresso ma davvero un cipresso; la montagna, nella sospensione di ciò che le è proprio: “solo” una montagna ma davvero una montagna; il campo, sospeso nel suo chiaro mostrarsi: “solo” un campo di frumento o di fiori ma davvero un campo; il cielo stellato, nella promessa del suo notturno fulgore: “solo” un cielo di stelle ma davvero tale; il volto di un uomo, nella sosta del suo schietto apparire: “solo” un volto ma davvero un volto; e così via per il concretarsi di ogni reale in un mondo. Si tratta di un’attesa, di una sospensione, di una sosta o di una promessa — e quindi, in fondo, di un impegno — che interrogano e sommuovono l’essere dell’uomo, esigendo da lui un esaudimento, e che chiameremo, con un’unica dicitura, «speranza di verità» o, il che è lo stesso, «speranza d’essere» — una speranza che testimonia come la verità stessa sia in sé carenza. Così il vero nome dei concreti nel gioco dell’arte pittorica, cioè il nome che conviene loro alla luce dello scorgimento dell’originario circostanziarsi della verità sul tono dell’estraneazione, è quello di «speranti d’essere», di «speranti della verità», o, semplicemente, di «speranti». Nella speranza d’essere, cioè là dove la verità avviene come pura carenza, niente assume il “colore locale”, l’aspetto del contingente, il formato del factum brutum.

In secondo luogo, e veniamo così all’altra annunciata conseguenza, se l’essere vero, l’inverarsi, non può ridursi al singolo vero di volta in volta percepito e inteso, cioè se il concretarsi del concreto è altro dal concreto stesso, l’irriducibilità e l’alterità dell’essere vero e del concretarsi, ossia, in uno, la diversità della verità, verso tutto ciò che è via via reale, inclusi l’esistere dell’uomo e il vigere del Dio, costituiscono un’originaria e inconsueta singolarità.Un singulare tantum, un unicum. Riusciamo a mettere a fuoco il tratto di fondo di tale singolarità se ci lasciamo guidare dalla retta intesa della stessa parola appena adoperata: «diversità». La verità è diversa, vale a dire: vòlta-altrove ma dall’altrove sempre e improvvisamente veniente-verso, ossia — nella misura in cui è dall’umano esistere ognora sorretta — veniente incontro. Ebbene, tale (suo) altrove non è semplicemente un altro “dove”, un luogo o un sito separato e avulso dalla sfera dei concreti (un al di là rispetto a un al di qua), bensì, semmai, un’intrinseca recondita ubiquità, che si lascia pensare come l’ubiquo primigenio nascondimento poiché consiste nel sottrarsi a qualsivoglia umana presa contrastando ogni brama di dominio e risolvendola in niente. La verità è allora quel perenne avvento che, proprio sempre per l’appunto tutto contrastando d’ascosità, offre il contrasto, cioè dona il risalto, il rilievo, la flagranza (dell’apparire e dello scomparire) a tutto ciò che viene incontro all’uomo, in questo e quel modo, come concreto e reale. La verità, pensata nella sua originaria singolare sempre inconsueta ed estraneante diversità, cioè nel suo carattere (diciamo ora) di scissura, meglio di scisma verso il concreto, è pertanto la contrada di tutti gli incontri, la contrada del getto di flagranza. Ora, poiché quest’ultima si sostanzia ogni volta in un venire in luce dal nascondimento, cioè in uno stagliarsi, è attendibile pensare la verità come la scismatica contrada dello stagliante nascondimento (che è poi per l’appunto il senso iniziale della greca ἀλήθεια). Con una formula, diciamo infine: la verità, in quanto diversità verso i concreti, cioè in quanto scisma fra i reali, è il contrastevole regno dello stagliarsi; con una parola all’uopo coniata: è la stagliatura (che, a suo modo, traduce la Lichtung pensata nel Denkweg di Heidegger).

Osservando dall’esterno il nostro modo di procedere — il quale, come si è visto, si serve anche del conio di dizioni —, si potrebbe facilmente concludere che, in fondo, qui si mette in scena un rituale linguistico, alquanto esoterico, zeppo di formule fondamental¬mente inadatte a dire l’esperienza della pittura e la pittura stessa, e dunque l’arte. Ma Vincent ci soccorre, e, a suo modo, ci esorta a non desistere. In un lettera a Theo del 19 aprile 1888, inviata da Arles, il pittore annota:

Molti, soprattutto tra gli amici, immaginano che le parole non siano niente. Invece non è affatto così: dire rigorosamente un senso pensato è altrettanto avvincente e altrettanto arduo che dipingere qualcosa. V’è l’arte delle linee e dei colori, ma nondimeno resterà l’arte delle parole.

L’esperienza, il tentativo della verità nel senso della stagliatura trova un sostegno in un’antica voce della nostra lingua: il verbo «disascondere». Esso si forma su «nascondere», che ha già parlato nella precedente puntualizzazione, e che etimologicamente significa custodire e salvaguardare, recondere (un che di recondito è un che di appartato perché tenuto al riparo). Il «dis-» del disascondere non significa però negazione od opposizione bensì assecondamento e favore, suffragio. Se dis-ascondo qualcosa non lo strappo al nascondimento, alla reconsione, ma lascio che appaia per entro l’ascosità, suffragandolo in tali sue costitutive inerenza e provenienza. Il disascondere è un “nascondere in chiaro”, un condurre alla luce facendo sì che la luminosità non annienti l’ascosità ma, anzi, la illumini proprio in quanto ascosità. Il disascondere è un lasciare che la luce sia l’illuminarsi stesso del nascondimento, il suo chiaro-candido culmine, la sua mite incandescenza. Nel disascondere, la luce è fin dall’inizio esperita come il velo dell’ascosità e non come un suo squarcio o una sua lacerazione (come se essa fosse solo un fascio radiante che punge di lucente energia la scempia cosa). Infatti, proprio velando l’ascosità, la luce si accende in quella istantanea trasparenza, in quell’escandescenza, che lascia apparire ciò che potrà essere scorto dall’occhio come uno stagliato in flagranza d’ascosità, cioè per l’appunto come uno sperante. Il velo dell’ascosità — la luce esperita nel disascondere — è dunque un velame stagliante: quando il velo di luce è al culmine del suo vigore velante, nitidi e fulgenti, nei contrasti di colore, sono gli stagliati speranti, così come quando quello si svigorisce nel suo velare l’ascosità, opaco e sordo, dis-fulgente, è lo sperante stagliarsi. Tuttavia quanto più fermamente la luce vela l’ascosità, tanto più vigorosamente folgora quest’ultima come la recondita invisibile provenienza delle apparizioni: ogni stagliato è allora, letteralmente, un fiore del nascondi¬mento, un boccio d’ascosità. Ecco: la stagliatura si staglia per noi se impariamo a seguire tale originario gioco della luce.Il gioco della luce non deve essere confuso con il “gioco di luci” o con il “gioco di ombre”, eccetera, che sono invece i tipici concetti derivati dal format radiale.

Riassumiamo questi cenni: l’arte della pittura — e, con essa, ogni arte — è innanzitutto, prima ancora che una “tecnica” (posto poi che lo sia!), il richiamo alla verità come stagliatura e quindi alla concretezza e alla realtà come sfera degli stagliati in flagranza d’ascosità, cioè come fuga degli speranti La parola «fuga» non indica qui il mero fuggire bensì quell’intero che flagra grazie al mostrarsi di una compagine di concreti: si pensi alle espressioni «fuga di stanze», «fuga di valli».. Solo se l’arte giunge a un uomo nella forma di un siffatto richiamo, ci si può attendere che sorgano e maturino in lui, nei suoi occhi e fra le sue mani, nel suo corpo, le capacità, le abilità e le attitudini necessarie — il contegno necessario — alla creazione dell’opera, che consisterà dunque in un porre e in un istituire in figura la verità stessa, e mai in un traslare la cosa entro un’immagine, cioè mai in un restituire il colore locale. L’artista nasce dalla verità e muore nell’opera. L’attendibile avvenenza di questa custodisce — reconde — il ritratto fulgore di quella. L’opera tenta la verità, eleggendola e scortandola nell’inesauribilità del suo donarsi. Così l’originario tratto della verità prima indicato, cioè la carenza, si mostra ora più rigorosamente come carenza d’opera, come povertà di creazione. L’opera può attendere alla verità, solo perché la verità ne è già sempre carente, ossia già sempre l’attende. Non sarebbe in sé sperabile, altrimenti.

Solo dunque là dove il concretarsi dei reali — ma dovremmo dire delle res (riservando così la parola «cosa», come s’è fin qui fatto, per il colore locale) — sia esperito come sperante d’essere, cioè unicamente nell’istante in cui la res si staglia in flagranza d’ascosità, il suo (della res) essere concreto può giungere ad assumere la forma di ciò che i pittori chiamano «il motif»: il movente (il commovente, l’emozionante) all’opera, ossia il motivo della — anzi verso la — creazione del disegno e della figura.

III.

Ritroviamo tutto questo in un esemplare passo di una lettera del 19 giugno 1879. Scrive Vincent:

Non conosco una definizione della parola «arte» migliore della seguente: L’art, c’est l’homme ajouté à la nature — la natura, la realtà, la verità, ma con un senso, con un’interpretazione, con un’indole o una tempra che l’artista disasconde in essa (natura, verità) e che egli traduce, acclara, chiarisce.

Non abbiamo il tempo sufficiente per leggere in profondità tale annotazione. Essa parla con la semplicità e la sicurezza di chi, errando nell’arte come richiamo alla verità carente d’opera, sa ciò che vuole (sapendo, al tempo stesso, che non può mai volere ciò che sa). Dobbiamo perciò accontentarci, anche in questo caso, di un cenno di delucidazione, articolato nell’esposizione di tre interrelate, ma per l’appunto indimostrate, tesi.

L’art, c’est l’homme ajouté à la nature letteralmente significa: «l’arte è l’uomo aggiunto alla natura». Tuttavia — prima tesi — questo ajouté non intende suggerire l’immagine di una mera “aggiunta” (un’appendice o un supplemento); esso dice invece di una addicenza; non si tratta insomma del fatto “arte” come dell’effetto dell’aggiungersi di qualcosa del genere “uomo” a qualcosa del genere “natura” (quasi si trattasse di una somma), bensì dell’arte come di un’origine che flagra nell’istante stesso in cui l’uomo si addica alla natura, cioè dedichi a essa il proprio essere.

Ma qui la natura — e veniamo alla seconda tesi — non è né la φύσις esperita nell’antico pensiero greco né la natura nella sua versione latino-romana (la natura come fondo di stanzietà dell’imperium), né, a maggior ragione, l’universo matematizzato dell’odierna fisica (ove, peraltro, il tratto romano dell’imperium culmina nella forma della cibernetica); d’altronde essa (natura nel senso di van Gogh) non è da intendersi né come il sistema totale degli esseri viventi e non viventi, né come la cosiddetta “forza generatrice di tutte le cose”, né come l’altrettanto cosiddetto “cosmo dei fenomeni” che l’uomo contemplerebbe e indagherebbe. L’artista pensa pittoricamente nella parola «natura» la realtà sentita e avvertita ab origine come quella concretezza che attende la verità in carenza, cioè che spera il compiuto dono di flagranza, la compiuta stagliatura.

Così — ecco la terza tesi — l’opera d’arte, meglio: l’opera dell’arte («arte» che ora vuol dire: dimora dell’uomo nel fulcro dell’addicenza alla carente stagliatura), l’opera dell’arte, dicevamo, si configura ogni volta in se stessa come (parole di van Gogh) la traduzione del pre-disascosto motif-sperante, cioè come il suo acclaramento, la sua chiarificazione, ossia, con le parole del nostro discorso, come la sua riconduzione nella stagliatura per scortarlo in essa in modo che la sua speranza di verità sia “infine” esaudita. Ora, qui, tutto sta nell’intendere rettamente tale esaudire ... in modo che resti sempre degno per noi di interrogazione e di pensiero.. Esso non è mai infatti l’appagare o il soddisfare, bensì, alla lettera, l’ex-audire, l’accorto udire, ossia: null’altro che il lasciar risuonare, il lasciar rifulgere, il favorire. Ma quale indole? Risposta: il motif stesso nella sua intrinseca capacità — proprio in quanto sperante della verità — di operare verso l’uomo, di adoprarsi per il suo essere, di scuoterlo cioè nell’intimo, ridestandolo così dalla torpidità e dall’ottusità dell’impatto (del colore locale delle cose e della “vita”) per ricondurlo là dove già sempre dimora, in quella stagliatura che egli per indole sorregge e che proprio di tale adergente indole è ogni volta carente; per lasciarlo tornare insomma nella sua più inconsueta e inziale patria e casa: nella verità ... in carenza di umana indole.quale avvento di un attendibile mondo. Che l’operare del pre-disascosto motif-sperante verso l’uomo si generi grazie all’opera della sua figura: questo è il primo e ultimo movente del creare artistico; questa è la sua salda mira.

Se intendiamo seguire l’errante cammino del pittore nell’arte, non dobbiamo dunque mai dimenticare lo scorgimento originario che suona: la natura, in sperante realtà, in sperante concretezza, è già sempre l’attesa della verità, del dono di flagranza, della stagliatura. Così l’erranza nell’arte consiste nell’errare lungo le rotte della natura verso la già sempre nascostamente abitata verità, in sé carente d’opera. Questo errare, è appena il caso di ricordarlo, non è un vagolare alla cieca e senza meta, bensì — come annota Vincent in una lettera del 12 o 13 aprile del 1888 — è il diuturno tentare «di cogliere, nel disegno, l’essenziale».

L’essenziale nel disegno è il dono di flagranza all’opera, la verità sperata via via dai motifs — i quali rifulgono nell’en plein air, che non designa affatto, come ci ripetono gli storici dell’arte, l’“essere all’aria aperta” contrapposto al “chiuso” dell’atelier. Se stiamo attenti al fenomeno (e ci guardiamo dagli automatismi della quotidiana spensieratezza), l’en plein air della pittura si mostra piuttosto come l’invisibile etere del gioco della luce, l’etereo nitore notturno-diurno di cui si alimenta l’incandescenza della stagliatura.

L’erranza nell’arte erra nella natura, erra nell’en plein air, nell’etere della carente verità. Così, durante l’erranza, all’improvviso uno sperante si rivela un attendibile motif: ora è un frutteto o un ponte, ora è un villaggio o un campo di frumento o un giardino, ora è un volto (anche quello del pittore) o una giovane femmina, ora è una casa o un bosco o un cielo stellato — oppure due cipressi, così come sono per esempio raffigurati in un quadro del 1889 (Les Cyprès), che Vincent descrive a Theo nei termini seguenti:

Gli alberi sono molto grandi e imponenti; il primo piano è molto basso, vi sono dei rovi e cespugli. Dietro, appaiono delle colline viola, un cielo verde e rosa con un crescente di luna. Il primo piano è molto appesantito, ed è colmo di ciuffi di vegetazione dai riflessi gialli, viola, verdi. [783]

I cipressi sono raccolti in una fuga di alte fiammate di verdi che ardono del fuoco celeste, il quale folgora a sua volta, in un verde-rosa, da giochi di nuvole, attorno a un tondo cenno di una luna gialla. Le nuvole cantano da lassù, sopra un taglio di colli viola-azzurri e uno spicchio di violacei giallo-verdi punteggiati di bianco, la vaghezza e la spaziosità del mondo.

Scorgiamo allora «l’essenziale», tentato dal pittore nel «disegno» di questo quadro: gli speranti alberi sono fiamme verdi perché, solo in tal modo tradotti, possono mostrarsi e quindi stanziarsi in verità, cioè come stagliati dalla luce celeste, la quale appunto non li colpisce, irradiandosi verso di essi, bensì letteralmente li accende infiammandoli dall’ascosità.

Ecco perché Vincent li sente «molto grandi e imponenti». «Grandezza» e «imponenza», qui, non hanno nulla da spartire con considerazioni e computazioni prospettiche: si tratta invece di nomi della natura. I cipressi sono «grandi e imponenti», nel loro incandescente configurarsi, poiché il colpo d’occhio pittorico li ha pre-disascosti, per così dire, come “pesanti di flagranza” per entro la flagranza, cioè come “colmi di stagliatura” per entro la stagliatura, cioè ancora come “carichi di verità” per entro la verità — insomma come “gravidi di natura”. E giacché sono vampate e lingue di fuoco, il loro gravame è pura, “naturale” leggerezza: è l’alleviarsi stesso del terrestre verso il celeste, il suo ergersi nel «verde e rosa», affidato al «crescente di luna», che, con la sua rotondità, accenna alla sfera d’integrità dei reciproci rimandi di terra e cielo, ossia al gioco del mondo.

Il quadro disegna allora «l’essenziale» del motif, cioè: il motif stesso nel suo sorreggere, e anzi essere, la grazia della verità. Il dipinto non nasce dai cipressi e neppure dal loro mostrarsi, ma da quei due cipressi speranti in quanto alberi «grandi e imponenti», che la verità adesso chiama a suo suffragio e a sua scorta, affinché la natura rifulga nel suo inaudito canto.

Con una formula sintetica, il detto del quadro Les Cyprès suonerebbe così: in verdi fiammate, accese, sulla terra, dal fuoco del cielo, i due, fermamente radicandosi, recano in sé — adergendola in leggera-pesante incandescenza — la grazia della verità come inizio di un mondo.

IV.

Ora — ed entriamo così nell’ultima parte del nostro discorso —, la maniera di errare nell’en plein air che contraddistingue van Gogh, ossia la guisa “alla Vincent” dell’erranza è esplicitamente riferita a un vento che spesso soffia in Provenza: il mistral. Quest’ultimo non è per van Gogh un semplice fenomeno atmosferico (nel senso della corrente d’aria fresca o fredda che proviene dal Massiccio Centrale), ma, a suo modo, e per un motivo di fondo, il “pittore primo”.

Ognuno sa che accade durante una giornata in cui spiri un vento settentrionale: ogni res appare più nitida — il che, sul piano della verità della natura, significa semplicemente che gli speranti sono più speranti, cioè che si stagliano al culmine del loro sperare. L’albero è “più” albero e il ponte è “più” ponte, così come lo sono il frutteto e la montagna, la casa e il campo di frumento: ogni reale è più capace di essere ciò che è — nella speranza della verità. Nei giorni di mistral — ecco il senso di ciò che stiamo osservando — rifulge la speranza d’essere nel suo mite vigore. Ed è proprio il “più” di speranza nel mistral l’ultroneità che chiama l’artista a un’erranza più errante e quindi più creativa.

(Come esempio, pensiamo per un istante al cielo. Nel mistral, esso diviene più azzurro, cioè più chiaro nel suo vagheggiare quel blu cobalto che è, come scrive Vincent, «un colore di Dio». Così potremmo dire che quel vento “scrive”, “disegna” e “dipinge” il cielo come più capace di stagliarsi nell’attesa di un Dio. Per intenderci sul fenomeno cui accenniamo, leggiamo una poesia di Hölderlin:

Was ist der Menschen Leben? ein Bild der Gottheit. / Wie unter dem Himmel wandeln die Irdischen alle, sehen / Sie diesen. Lesend aber gleichsam, wie / In einer Schrift, die Unendlichkeit nachahmen und den Reichtum / Menschen. Ist der einfältige Himmel / Denn reich? wie Blüthen sind ja / Silberne Wolken. Es regnet aber von daher / Der Thau und das Feuchtere. Wenn aber / Das Blau ist ausgelöschet, das Einfältige, scheint / Das Matte, das dem Marmelstein gleichet, wie Erz, / Anzeige des Reichtums.

(Che è degli uomini la vita? Una figura della deità. / Come sotto il cielo vanno i terrestri tutti — ecco, lo scorgono. / Ma leggendo, per così dire, come / In una scrittura, l’infinità ponderano e la ricchezza / Uomini. È il semplice cielo / Dunque ricco? come fiori sono appunto / Argentee nuvole. Piovono però dalla loro flagranza / La rugiada e il più umido. Ma quando / L’azzurro è spento, il semplice, splende / L’opaco, che assomiglia al marmo, come bronzo, / Indice della ricchezza.)

Chiameremo il mistral il vento della verità, il vento della carente stagliatura.

Ma tentiamo di comprendere più rigorosamente il modo in cui questo vento scrive, disegna e dipinge. Se ci chiediamo in quale indole innanzitutto la folata di vento infonda il proprio impeto, ebbene troviamo facilmente che essa non può che essere la luce. E ciò accade nel seguente senso: il mistral fa sì che la luce divenga più vigorosa nel velare l’ascosità, in modo che ovunque culmini la speranza d’essere. Diciamo allora che questo vento è “luce nella luce” (ovvero suggella la sua autonimia). Il mistral illumina la luce nel suo velare l’ascosità (nella sua tempra di velame stagliante) rendendo in tal modo gli speranti più richiamanti e conclamanti, cioè più squillanti nel reclamare la traduzione in opera. Esso sostiene dunque la pre-disasconsione del motif-sperante nella stagliatura affinché possa divenire pienamente operante nella pittura. Riposa perciò nel soffio di questo vento il senso ultimo dell’en plein air in van Gogh. Non a caso, infatti, René Char, in un breve testo appartenente alla raccolta Les voisinages de van Gogh, scrive:

Stava fuori a lungo la notte, scompariva tra fitti cipressi, a cui rapide stelle facilmente si avvicinavano, oppure scatenava il mistral all’estremo [ossia: al culmine del suo vigore di luce nella luce], con l’ingombrante presenza del suo cavalletto, della tavolozza e delle tele legate alla peggio. Così carico, si dirigeva dalla parti di Montmajour. [...] Arles e Les Baux, e la campagna che si snoda verso il Rodano, erano i luoghi di quell’errare e, all’improvviso, del tormento Si pensi al travail intelligent, al «tormento intelligente» di Cézanne.di un pittore estraneo, a causa dei suoi occhi e del colore rosso del pelo, ma senza alcuna concreta possibilità di avvicinarlo [ossia: colmo di ciò che potremmo chiamare «l’ostica mitezza» di Vincent — carattere che è palese nei suoi indimenticabili autoritratti]. René Char, Le vicinanze di van Gogh, a cura di Cosimo Ortesta, SE, Milano 1987-2005, pp. 54-57 (Gallimard, Paris 1985).

L’arrivo di Vincent scatena il mistral all’estremo! L’errare del pittore nel vento fa sì che il vento stesso spiri di pura luce. In una lettera da Arles del 27 giugno 1888, leggiamo:

Se vedessi le mie tele, che ne diresti? Non ci troveresti la pennellata quasi timida e coscienziosa di Cézanne. Ma poiché attualmente dipingo la stessa campagna della Crau e della Camargue — benché in un posto un po’ diverso — potrebbero esserci certe analogie di colore. Chissà — senza volerlo ho pensato di tanto in tanto a Cézanne, quando appunto mi sono reso conto della sua pennellata così goffa in certi studi — passami il termine goffa — visto che probabilmente ha eseguito i suddetti studi quando soffiava il mistral. Avendo da fare per metà del tempo con la stessa difficoltà, mi spiego per quale motivo la pennellata [la touche, il tocco di pennello] di Cézanne è ora molto sicura e ora sembra goffa. È il cavalletto che vacilla. Ho qualche volta lavorato troppo in fretta — è un difetto? Non posso farci nulla. Così, una tela n° 30 — il vespro estivo — l’ho dipinta in un’unica seduta. Tornarci su non è attendibile — distruggerla — perché? Giacché sono uscito in pieno mistral apposta per dipingerla. Non è forse piuttosto il vigore del pensiero ciò che tentiamo, più che la calma della pennellata? E nella data circostanza del tormento sofferto in viva accortezza Travail primesautier — Cézanne, come abbiamo ricordato poco fa, lo chiama travail intelligent, «tormento intelligente». sul motif e nel bel mezzo della verità,Sur nature, presso il vero. la pennellata calma e perfettamente regolata è sempre possibile? Non più — mi pare — di quanto possano essere calmi e regolati i colpi di scherma all’assalto.

L’opera Campo di frumento al vespro è stata dipinta «in un’unica seduta» e «in pieno mistral», cioè al culmine del vigore della luce.

È una tela del 1888. Il villaggio di Arles, sulla parte alta del quadro, campeggia quasi adagiandosi e sostenendosi sul sole calante, giallo e nitido di mistral, il quale sferza l’aria portando via rapidamente il fumo di alcune ciminiere, a sinistra e a destra del quadro. Il giallo-ponente del sole si rispecchia nel giallo del campo di frumento, il quale, assecondando le staglianti raffiche, muta di tono, da un giallo-leggero-solare a un giallo vago-rosso e poi ancora a un giallo-leggero, frastagliato, nel primo piano del quadro, in spighe giallo-ambrate.

Il mutuo richiamo fra il sole e il campo, nei loro rispettivi gialli che si specchiano reciprocamente, concedendosi l’un l’altro il tono, è in verità, come dice Vincent, una «sinfonia in giallo», ossia, diciamo noi, un canto che intona l’aureo della stagliatura — quell’aureo o quell’oro che ha già sempre liberato l’uomo dalla potenza e dall’impotenza, così come dal valore e dal disvalore: il dis-valoriale dis-potenziale — de-potenziante — oro della verità. («De-potenziamento» qui vuol dire «disarmo della potenza».)

(La parola «oro» viene da aurum, che si forma su una radice indicante il disascondersi di un fulgore, e quindi la condizione o il dono di quest’ultimo, cioè qualcosa come una “pre-fulgenza” — si pensi a «tesoro» e poi anche ad «aurora», che designa il farsi giorno, il flagrare della luce dall’oscuro. Nella dizione «oro» non dobbiamo dunque intendere immediatamente il metallo prezioso, cioè l’elemento chimico della tavola periodica di Mendeleev «AU — n. a. 79». L’aureo non è una qualità di un certo metallo; è quel certo metallo, piuttosto, ad appartenere all’aureo, ed è per questo che è chiamato «oro». Pindaro, nel noto incipit della Prima Olimpica, canta: Ἄριστον μὲν ὕδωρ, ὁ δὲ χρυσὸς αἰθόμενον πῦρ / ἅτε διαπρέπει νυκτὶ μεγάνορος ἔξοχα πλούτου — ossia: «Di nobile genesi è l’acqua; ma l’oro, come folgore d’incandescenza, / nella notte si staglia, lungimirante oltre ogni opulenza.»)

Forse che allora il giallo(-oro) è in fondo il colore della stagliatura? Lasciamo in sospeso la questione. Certo il giallo reca in sé, mediante l’aureo, un precipuo riferimento al dono di flagranza. In ogni caso, nell’opera, il mistral, in quanto vento della stagliatura, gioca con l’oro del campo di frumento in quanto oro della verità.

E il frumento, fiorente di spighe stagliate dal vento?

Il frumento dona la farina, che, a sua volta, offre ai mortali il pane. («Farina» viene dal latino far, in cui parla forse la radice i.e. bahr [ferre], che ha i tratti del sostenere e del nutrire.) Il quadro, raffigurando il campo di frumento, parla del pane, anzi lo canta nella sua origine.

E che è il pane? Come il vino, è un dono degli Dei. Hölderlin, nell’elegia intitolata appunto Brot und Wein, «Pane e vino», detta (strofa 8):

Brot ist der Erde Frucht, doch ist es vom Lichte geseegnet

— ossia (in una traduzione non poetica ma esplicitante):

Il pane è un frutto della terra, eppure proprio dallo staglio di luce esso viene “benedetto”, ossia: favorito, lasciato essere, segnato in verità, inverato — consacrato, salutato.

Alla lettera, il verso suona:

Pane è della terra frutto, eppure è dalla stagliante luce salutato. [Il pane è sì un frutto della terra, cioè frumento, ma è tale “solo” perché è salutato dalla luce.]

È un verso incantevole, nel senso che incanta (cioè: lascia cantare e quindi detta) la più originaria essenza stagliante della luce, più originaria perché più elementare, più elementare perché più obliata, ma più obliata perché in sé più ricca e sublime: «luce» significa — ben prima di ogni suo concetto sia attendibile sia scempiamente formale — favorire, inverare, consacrare, salutare, quale frutto della terra, quel dono degli Dei e di Dio che chiamiamo «pane», e che costituisce, come ognuno sa, la gioia stessa (la «prima allegrezza», la pura solerzia, la salutare solitudine) dell’esistere mortale, cioè dell’essere terrestri.

Il pane può essere dettato e cantato, come frutto della terra, in grazia del frumento — ma non del frumento inteso come grano (“materia prima granulare”), bensì del frumento colto nel suo flagrare in una sinfonia di gialli, in una sinfonia aurea, che è il saluto stesso dello staglio di luce.

La nostra lingua, come sempre, ci parla: frumentum è una contrazione di frugimentum, che viene dalla stessa radice di frux e di fructus, part. perf. di frui, «fruire», cioè giovarsi, ricevere un favore, essere salutato, salvato. «Frumento» vuol dire allora proprio «frutto della terra».

A tale famiglia di parole appartiene poi la dizione frugalitas, che, nella sua prima accezione, indica la raccolta e la messa a dimora dei frutti della terra (la “provvista”), le loro accoglienza e reconsione in quanto frutti, nel senso del loro essere favoriti, consacrati e salutati come tali. La frugalitas si fonda perciò sull’intesa della grazia del fructus, del suo tratto di dono, quindi sulla gratitudine verso la fertilità, gratitudine che è a sua volta sostenuta dal timore del venir meno e del negarsi del fructus, cioè dallo sgomento della carestia. L’essenza della frugalitas è dunque il contenzioso reciproco tenersi di grazia e carestia nell’accortezza della fecondità. Ecco perché questa dizione vuol dire già in latino «frugalità» nel nostro senso, cioè sobrietà, moderazione, “economicità”. Gratitudine verso la fertile grazia per entro il timore dell’infecondità della carestia — questa è la frugalità.

Il verso di Brot und Wein, prima citato, implica pertanto anche il seguente detto:

Pane è il frumento salutato dallo staglio di luce,
la sua (della luce) indole frugale, la sua frugalità.

Ora, “tradotto” in tale forma, il verso può divenire il secondo titolo, il sottotitolo, dell’opera: non raffigura quest’ultima infatti proprio, «in pieno mistral», il saluto della luce al frumento? E non è tale saluto daccapo una sinfonia in giallo? Non è esso forse il cenno dell’oro?

Titolo:
Campo di frumento al vespro.
Sottotitolo (ossia l’indictum, il non-detto, l’implicito):
Pane — è il frumento salutato dalla luce, la sua stessa (della luce) frugalità

V.

Ma v’è dell’altro.

Se l’opera dice che nel vespro, nel ponente, folgora, grazie al mistral, il saluto della stagliante luce, resta naturalmente da chiarire il senso in cui pensiamo il saluto. Salutus è un deverbale da salutare, intensivo dell’intransitivo latino salveo/salvêre, che vuol dire «essere sani e salvi» e che si adopera solo come parola di accoglienza, di benvenuto e di augurio ma anche di commiato: salve, salvete, eccetera. Nel saluto parlano la salus e l’aggettivo salvus, che si formano su una radice indicante interezza e integrità. «Intero-integro», letteralmente, significa non passibile dell’atto del tangere, quindi intatto e intangibile, sacro, ma anche, e al tempo stesso, immune ed esente dal tangere, ossia mai tangente, “dis-impattante”, in uno: dis-contingente. La salute, originariamente, è interezza-integrità, nel senso della discontingenza, ossia dell’originaria scissura da ogni contingenza. L’originaria salute è lo scisma — è il sacrum.

Possiamo così pensare nel saluto il segno, anzi il sigillo dell’avveniente dono di salute, dell’avveniente dono d’integrità, cioè del sacrum in quanto avvenente salubrità — posto di udire però la dizione «salubrità» a partire dal suo etimo. Essa si forma su salu-ber, che alla lettera vuol dire: latore di salute, arrecatore d’integrità, donatore d’interezza. L’avvenente salubrità è quindi l’avvento dello scisma, ossia — se riandiamo ai passi del cammino fin qui seguito — la grazia della verità in quanto carente stagliatura, che possiamo anche chiamare «il dono dell’apparire» o «il sacro», ovvero anche (lo asseriamo senza mostrarlo) «il dono di tempo spaziante-collocante», «il dono di spaziante temporaneità», «la spaziosità». Ognuna di queste formule indica, a suo modo, il medesimo — che adesso denominiamo con due sole dizioni: il salubre e la salubrità.

L’originario saluto (che celatamente vige in ogni salutare umano o divino) è dunque il lieve sigillo del salubre, il cenno dell’avvenente salubrità, ossia: l’offrirsi del salubre stesso agli speranti, esaudendoli e dettandoli infine come «i salubri». Ma allora il mistral, il vento della verità, può essere chiamato «il vento salubre» poiché illumina la luce nel suo salutare il frumento, cioè nel suo stagliarlo come «pane salubre».

Il saluto della luce al frumento — nel vento salubre — è la salubrità stessa del pane (la sua sacertà).

Ma, daccapo, tale saluto è una sinfonia in giallo: la salubrità del pane sta nell’oro — nell’aurea tempra della frugalità della luce.

Ritorna l’oro, adesso, suggellato però nella sua già emersa essenza depotenziante. Il quadro di van Gogh canta esattamente questo liberante ritorno, dipingendolo come l’opera stessa del mistral. È il vento, qui, il primo pittore, come s’è indicato sopra.

Il liberante ritorno, al cospetto dell’opera Campo di frumento al vespro, suona semplicemente così: l’oro, l’oro vero, l’oro della carente verità, è (il) pane — il sigillo della frugalità.Due note. 1. Si impari a misurare l’abisso che corre fra il precedente scorgimento, raffigurato nel quadro, e quell’opinare, moraleggiante o anche solo folkloristico, che si articola in una varietà di “sentiti-dire”, come, ad esempio, «il pane è oro», «l’oro del pane», «l’oro dei mulini», «l’oro del grano», eccetera. È appena il caso di ricordare che si tratta di consunte metafore, che assumono il contingente oro (il metallo, l’elemento chimico) quale unità di misura valoriale. — 2. Nella parola «pane», si ode una radice che designa il nutrire e il sostentare (la radice i.-e. pa-, da cui viene il lat. pasci). Questo può illuminare, sebbene indirettamente, il senso di una frase di Vincent, contenuta nella citata lettera a Theo del 5 ottobre 1888; parlando del suo quotidiano ininterrotto studium, egli dice: Je mange de la nature, «mangio della natura», cioè mi nutro di natura, mi alimento di verità nel segno della frugalità.

Dovrebbe essersi ora ulteriormente chiarito il senso in cui il pane, come dicevamo, è la solerzia, la salubre solitudine dell’esistere: quale sigillo della frugalità, esso intona infatti l’abitare dei mortali alla gratitudine verso la spaziosità del salubre, retro-intonandolo al timore della sua carestia. Avanziamo a tal proposito tre osservazioni. 1. La carestia del salubre, la carestia d’origine, è il nascosto ritrarsi della salubrità nel suo tratto più fragile e inconsueto, più ostico, cioè nel suo avvenire verso l’uomo come perenne carenza di un esplicito umano suffragio, e perciò — ma innanzitutto — nel suo folgorare verso l’artista come diuturna carenza d’opera. La carestia del salubre, la carestia di ogni carestia, l’impatto dell’insalubre, è l’ancora inavvertito disdirsi, nell’essere dell’uomo, nel suo cuore pensante, della stretta di verità generata dal salutare colpo della carenza: ed è pertanto il non ancora esperito e inosservato celarsi della salubrità nell’opulenza della scatenata contingenza, infrangibile matrice di ogni brama. 2. Senza il sostegno di un pensiero della carestia del salubre, cioè senza il sentimento dello schiaffo dell’insalubre, e quindi senza la gratitudine verso la sempre fugace carente carezza della salubrità (pensiero e gratitudine a lungo esercitati), ogni tentativo di pensare il male è destinato allo scacco, così come è precluso il senso della carità, con la conseguenza che la mala indole dell’ingenerosità, dell’ingratitudine, e, in generale, il contrasto fra il degenere e l’integro restano celati nel loro geniturale stanziarsi. (Solo l’esperienza della carestia del salubre può liberare nell’uomo un’attesa del Dio.) 3. Insalubrità, carestia originaria: non scorta carenza della carenza in cui consiste la verità. L’intimo stanziarsi del salubre si stanzia nella sua carestia. «Carestia» è pertanto la prima [dis-]dizione dell’essere, la più attendibile voce di quel disdetto Medesimo indicato dalle dizioni: lo scisma e la carente verità, la carente stagliatura e il dono dell’apparire, il sacro e il dono di tempo spaziante-collocante, il dono di spaziante temporaneità e la spaziosità — il gioco del mondo.

La precedente delucidazione ci impone di chiarire il nesso tra il salubre e la frugalità. Meditando sui loro rispettivi sensi, così come li abbiamo attinti al cospetto dell’opera, cioè grazie al pensiero del ritorno dell’oro nella forma del pane, non è difficile accorgersi come la frugalità sia un tono di fondo della salubrità. Questo mostra infine il quadro intitolato Campo di frumento al vespro: il salubre come frugalità — la frugalità del salubre.

Il pensiero del salubre si compie solo quando esso si tempri nel sentimento della frugalità, ossia nella meditazione del contenzioso tenersi, l’una verso l’altro, della gratitudine e del timore: quella, verso la fertilità della grazia; questo, verso l’infecondità e la disdetta dell’originaria carestia. Diciamo: «il pensiero del salubre» — e all’improvviso, non appena iniziamo a pensare davvero tale pensiero, adergendolo fin nel (suo) solido nulla, posti dinanzi all’opera, che canta il liberante ritorno dell’oro nel pane, ci accorgiamo che quel pensiero vagheggia la frugalità, e, così invaghito, e quindi solerte-errante, saldo nella solitudine, la tenta nella forma della sinfonia in giallo, giacché solo in tale guisa (quel pensare) attinge per sempre la propria attendibilità. Il pittore chiama il pensante invaghimento verso la frugalità «il vigore del pensiero».

Esso consiste ogni volta, ma sempre all’improvviso, cioè all’unisono con le raffiche del vento salubre, nel balzare via dalla «calma della pennellata» (cioè dal gesto solo apparentemente fermo, ma in realtà spaurito dalla vaghezza e dall’erranza e perciò in sé legnoso e rigido) verso «il tormento sofferto in viva accortezza sul motif e nel bel mezzo della verità». Le parole, qui forse più nettamente che altrove, non sono dette a caso. Il tormento non è lo strazio o lo spasmo della mera “fatica dell’opera” (o del tenere più o meno stabile il cavalletto e tutto il resto) bensì la trepidazione che, soffrendo (i.e. adergendo) il ritorno dell’oro, presagisce la frugalità, sentendone l’avvento come tono (sacro) del salubre. Per questo il tormento irrompe «in viva accortezza», cioè nell’accor-gersi che le folate del mistral — nel cielo, nel villaggio, sulle ciminiere e fra le spighe, e quindi nella «integrità della contrada» — sono ormai folgori della frugalità per entro i poli¬cromi stagli del salubre, che convertono istantaneamente gli speranti in salubri:

Non è forse piuttosto il vigore del pensiero ciò che tentiamo, più che la calma della pennellata? E nella data circostanza del tormento sofferto in viva accortezza sul motif e nel bel mezzo della verità, la pennellata calma e perfettamente regolata è sempre possibile? Non più — mi pare — di quanto possano essere calmi e regolati dei colpi di scherma all’assalto.

Nella risposta, Vincent si esprime con un motto di spirito — che noi dobbiamo però prendere alla lettera. La pennellata è adesso affidata al mistral ed è, fuor di metafora, un colpo di «scherma all’assalto».

La scherma all’assalto non è un’aggressione, e i suoi colpi non intendono ferire alcuno né nuocere ad alcunché. La scherma è l’arte dello schermo, e lo schermo (a. a. t. skerm) è lo scudo, il riparo, la difesa: la scorta. L’assalto è il balzo e il sussulto in quell’erranza ove soltanto può iniziare la scorta, la cui arte consiste nell’inferire colpi che frangono l’impatto, e così toccano, lievi, lasciando essere. Il colpo di scherma è un colpo di scisma: colpo che, mai tangente, cioè discontingente, scortando lo scisma, tempra il colpito nell’integrità del salubre, nel sacro. Scherma, scisma: noli (me) tangere.

Le pennellate sono colpi che, dall’erranza infrangendo ogni volta il colore locale della contingenza, all’unisono con le folate del salubre mistral, alleviano dall’impatto gli speranti verso la salubrità, scortandone, nell’assalto, la frugalità.

Le opere di van Gogh dedicate ai campi di frumento (fra gli olii se ne contano circa 30) costituiscono — verso e con i quadri dei frutteti, dei giardini e delle pianure, così come dei ponti e dei viali, dei vigneti, dei papaveri e dei girasoli, della semina, delle case e dei casolari campestri, ma anche degli ulivi e dei “paesaggi” — la fuga di fondo del suo errare nell’arte: la fuga della frugalità del salubre. Char non si riferisce, infatti, al salubre quando scrive:

Al cospetto dei suoi disegni, seppi che egli, fino a quell’istante, aveva come sofferto il tormento per noi soli. Come dunque non temprarsi [nel nostro creare artistico] allo spazio-di-tempo il cui dono resta scisso dal racconto? Ovvero dalla storia e dal suo occhio. — Fra i nostri futuri compiti vi è certamente quello di chiarire proprio il geniturale rango di appartenenza (o ingenitezza) di tale fuga all’arte dell’erranza; ciò dovrebbe poi consentire di acclarare il senso in cui essa (fuga) è e può essere detta “di fondo”, ovvero capace di indicare la provenienza stessa di quell’arte e, mediante essa, del pensiero a venire.

Vincent, a suo modo, conosce tutto questo, e lo annuncia con le sue consuete semplicità e naturalezza (a Theo da Arles, 20 maggio 1888 circa):

Nel futuro viene un’arte — e deve essere così invaghente e avvenente e così fresca e ingenua che, davvero, se oggi le offriamo la nostra ingenuità, non possiamo che crescere in solerte mitezza. [611] — Vado a poco a poco e via via scorgendo l’integrità del paese in cui abito.

Risponde a van Gogh, in un’altra lingua e in un altro paese, e alle folate di un altro vento, un poeta estraneo, che, agli inizi del secolo scorso, cantò la sacra frugalità del salubre nel modo più puro e commovente in un dettato intitolato Ein Winterabend, «Un vespro d’inverno». Il poeta si chiama Georg Trakl. Egli cantò in una terra prossima a quella dove noi ora siamo:

Wenn der Schnee ans Fenster fällt,
ang die Abendglocke läutet,
Vielen ist der Tisch bereitet
Und das Haus ist wohlbestellt

Mancher auf der Wanderschaft
Kommt ans Tor auf dunklen Pfaden.
olden blüht der Baum der Gnade
Aus der Erde kühlem Saft.

Wanderer tritt still herein;
Schmerz versteinerte die Schwelle.
Da erglänzt in reiner Helle
Auf dem Tische Brot und Wein.

Quando la neve cade alla finestra,
A lungo suona la campana del vespro,
Per molti la tavola è pronta
E nella casa ogni sperante è al suo posto.

Alcuni, durante l’erranza,
Giungono alla porta per oscuri sentieri.
Fiorisce d’oro l’albero della grazia
Dalla fresca linfa della terra.

Un errante entra in silenzio.
Tormento pietrificò la soglia.
gorano, in pura chiarità,
pra la tavola, pane e vino.

S. 101-120

Commentaries

2

Die Wahrheit ↗  und der menschliche Bezug zu ihr ist die Grunddimension der Kunst. Weil einerseits die Kunst wesentlich Stiftung der Wahrheit ist, andererseits die Wirtlichkeit eben in der Aufnahme und Bergung der Wahrheit und des Wahren beruht, ergibt sich ein Wesensbezug zwischen Kunst ↗  und Wirtlichkeit ↗  bzw. wirtlicher Ökonomie ↗ .

Der Hinweis auf die Wirtlichkeit in Zusammenhang mit der Ökonomie verdeutlicht, dass ein wirtschaftliches Denken und Handeln im Bezug des Menschen zur Wahrheit gründet.

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3

Für die Kunst und den Künstler zeigt sich das Seiende in der immerwährenden Bereitschaft seiner Wahrheit ↗  (seines Welt-Sinns), in der stets aufs neue wiederkehrenden Erwartung, zwar „nur“ es selbst, aber wahrhaft es selbst zu sein (s.u. die Ausführungen zum „motif”). Die Kunst antwortet auf diese Bereitschaft und diese Erwartung, in der schon das Sein selbst spricht, indem sie die Wahrheit des Seins als künftige Fuge von Ding und Welt dichtet und ins Werk setzt.

Daraus ergeht an die Ökonomie die Anweisung, dass sie nicht erst das bloße Seiende, sondern vielmehr das Seiende dieser Bereitschaft und Erwartung (das „verhoffende“ Ding), u.zw. als solches, zum „Gegenstand“ haben kann. M.a.W.: in der eigenen Klugheit und Verständigkeit der (wirtlichen) Ökonomie geht es um die Wahrung des Seienden, sofern es in die Ankunft der Wahrheit des Seins gestellt ist. Weil erstlich die Kunst die Aufmerksamkeit für das Seiende hinsichtlich der Ankunft der Wahrheit des Seins ist, ist die Kunst ↗  die erste Lehrmeisterin der Ökonomie. Von der Kunst lernt die Ökonomie zunächst, dass der Reichtum des Wahrheits-"Angebots" des Seins in sich bedürftig ist, nämlich bedürftig der die Wahrheit selbst "besiegelnden" ("gegenzeichnenden") Antwort und Entsprechung des schaffenden Menschen.

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4

Carenza, wörtlich der Mangel. Hier aber nicht im Sinn eines durch Seiendes behebbaren Fehls, sondern als die der Wahrheit eigene Armut. Die Wahrheit selbst ist arm an Werken der Kunst, was wiederum nicht bedeutet, dass die Werke die Armut beheben. Sondern die Wahrheit als Armut ist der Ruf nach dem Werk, das die Armut als Armut birgt und so den eigentlichen Reichtum hebt. (Zum Reichtum s. unten S.9.)

Zum Reichtum vgl. Cézanne (Brief an Victor Choquet vom 11. Mai 1886): “... Pour finir, je vous dirai que je m’occupe toujours de peinture et qu’il y aurait des trésors à emporter de ce pays-ci, qui n’a pas trouvé encore un interprète à la hauteur des richesses qu’il déploie”.

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5

Dieser Begriff der Wahrheit ↗  ist derjenige, der in der Wirtlichkeit ↗  spricht. Weil in der Wahrheit der Zug der ungewöhnlichen und befremdlichen Abgewandtheit liegt (die allgegenwärtige, d.h. zukünftige Verwandtheit in den Abschied), gehört zur Wirtlichkeit als solcher der Grundzug der Unwirtlichkeit.

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6

recte: a Emile Bernard

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8

Disascondere als Entsprechung zum deutschen Zeitwort entbergen. Die Wirtlichkeit hat den Grundcharakter der Entbergung, deren Grundzug wiederum das bergende Sichversagen ist und damit die Unwirtlichkeit des Anfangs.

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9

Sperante: Name des Seienden in der Wirtlichkeit, d.h. da, wo die Vormacht des bloß Vorhandenen (des Kontingenten, des Unmittelbaren in der Verwahrlosung) gebrochen ist. Sperare heißt „(ver)hoffen, harren, warten“. Das Gelichtete, aus gelichteter Verbergung Entborgene, ist jeweils eine Warte der Wahrheit.

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11

dimora ↗ : Haus, Aufenthalt, oikos, ethos

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12

patria e casa ↗ : Haus, Aufenthalt, oikos, ethos

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15

Reichtum

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18

https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Van_Gogh_-_Sommerabend.jpeg

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19

ploutos, opulenza, opulence: Namen des Reichtums ↗ .

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20

Das Gold der Wahrheit (vgl. Emily Dickinson, z.B. F418, F455, F536).

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21

Brot ↗ : das vom Licht gegrüßte Getreide, die Wirtlichkeit des Lichts.

Im Begriff des Brotes ist der Grundzug dessen angezeigt, was im Sinne der Wirtlichkeit als Nahrung gelten kann.

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22

Herleitung der ökonomischen Urtugend ↗  der Frugalität (sparsame Eingerichtetheit, Sparsamkeit, Bescheidenheit; einfache Genüglichkeit, Genügsamkeit; Mäßigkeit; Schlichtheit; Wirtlichkeit ↗ ). Die Frugalität als Sparsamkeit und Bescheidenheit gründet im ursprünglichen Sinn der frugalitas. Diese ist die Wirtlichkeit als die von der Furcht vor dem Ausbleiben der Frucht (d.h. vor der Unfruchtbarkeit der Notdurft) getragene Dankbarkeit gegen die Gunst der Fruchtbarkeit und das Geschenk der Frucht.

Gesetzt, dass das gemäße Wirtschaften bzw. das im eigentlichen Sinne wirtschaftliche Handeln den Charakter des Frugalen, Sparsamen trägt, ist ein solches Handeln in der Ablösung von der Maßgabe und Bestimmung durch die Wirtlichkeit unmöglich.

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Key Concept

Ethos, dimora, patria e casa

The original meaning of the Greek word “ethos” is “habitual residence”, “abode”, “dimension of sojourn” or “sojourn itself” – which is to say in other words: “man’s dwelling” or “site for man’s dwelling”. Consequently ethics is in the first place not knowledge about a system of moral rules derived from underlying moral values and supposed to orient human action in a given operative context, but, understood in the strictest sense of the word, that knowledge that forms an understanding of man’s dwelling on earth and is therefore capable of sustaining the building of the whole of sense-relations for this dwelling.

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Kunst

Wir denken noch nach.

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Brot

"Brot: das vom Licht gegrüßte Getreide, die Wirtlichkeit des Lichts.

Im Begriff des Brotes ist der Grundzug dessen angezeigt, was im Sinne der Wirtlichkeit als Nahrung gelten kann. "

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Ökonomie, wirtliche Ökonomie

Wir denken noch nach.

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Reichtum, Besitz, Wohlstandsgesellschaft

Im Gegensatz zum eigentlichen Reichtum, sind Besitz und Ertrag Anhäufungen von Werten, die auf Märkten durch Tauschgeschäfte zustande kommen. Davon ausgehend ist Wohlstand ein Axiom bzw. Postulat der Ende des 18. Jahrhunderts sich herausbildenden Wirtschaftswissenschaften.

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Tugend

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Wahrheit

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Wirtlichkeit, Unwirtlichkeit

Die Herrschaft der Macht des Effektiven kann deshalb nie durch einzelnes Wirkliches beschränkt sein, weil alle Einzelheit in der Masse der Werte aufgehoben ist. Erhebt sich das wessenlose entinnerlichte Effektive zum allgemeinen Maßstab, ist kein Freiraum für anderes als Wert, ist das einzige, was zählt, Masse. Bei der Entdeckung der Wirklichkeit in der Epoche der neuzeitlichen Verweigerung des Metaphysischen spielt immer die Entscheidung dieses einfachen und allgemeinen Entweder-Oder.

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